Alternativa Libertaria/Federazione dei Comunisti Anarchici

Sezioni di Livorno e Lucca






Home

 

 

Sindacato

 


 

SINDACATO

 

 

SOSTEGNO AL REDDITO

Una rivendicazione contesa tra progresso e conservazione


di Carmine Valente

In questi ultimi anni si è molto discusso tra le forze politiche e sindacali sulla possibile attuazione di misure di sostegno al reddito svincolate dalla prestazione lavorativa. Gli approcci alla questione sono stati e sono dei più variabili. Dall'approccio positivo etico-morale proprio del terzo settore che sottolinea come il numero delle famiglie che vive al di sotto della povertà assoluta sia aumentata anche in conseguenza della pandemia; al punto di vista pragmatico di settori imprenditoriali, in particolare della piccola e media impresa, che si vedono sottrarre fette importante di forza lavoro non disposte ad essere occupate con salari pari o prossimi al reddito di cittadinanza. Né mancano criteri di analisi che potremmo definire teorici che spaziano dal pensiero liberale al metodo di ricerca marxista.

A differenza delle energiche prese di posizione contro il Reddito di Cittadinanza delle forze politiche di destra e della levata di scudi del presidente di confindustria Bonomi, tesa a demonizzare i vagabondi del divano, i migliori pensatori liberali del secolo scorso hanno teorizzato la necessità di un intervento della società per garantire un reddito minimo a tutti. Pur nella non condivisione del progetto complessivo della società tipica del liberismo, rimanendo per noi comunisti libertari valida la prospettiva del superamento della formazione economica-sociale del capitalismo, non si può non sottolineare l'abisso culturale e di sensibilità sociale che caratterizzava l'elaborazione di alcuni di questi pensatori. Enaudi, in Italia, affrontando il problema della giustizia sociale propugna l'utilizzo della tassazione progressiva come leva per abbassare “le punte”, specificando che le imposte «sono vantaggiose alla collettività quando le minoranze, che sovratutto sono chiamate a pagarle, sanno che non l’odio e l’invidia le hanno determinate, ma il vantaggio pubblico del raggiungimento di fini universalmente reputati buoni »; e ai fini della legislazione sociale afferma che bisogna «giungere per vie diverse e adatte a far sì che ogni uomo vivente in una società sana disponga di un certo minimo di reddito». E circa il ruolo dei sindacati che tutelano il salario nei confronti degli imprenditori sostiene che « non sempre si lavora, non sempre si può godere del minimo di salario. Disoccupazione, infortuni, malattie, invalidità e vecchiaia, attentano alla comunità del lavoro. E allora la domanda è se lo stato per mezzo delle imposte non dovrebbe garantire a tutti un minimo in tutte le contingenze della vita nelle quali sia impossibile di lavorare. E c’è di più. Taluno sostiene invero la tesi che il minimo di punto di partenza dovrebbe essere garantito, astrazione fatta dalle circostanze in cui uno si trova nella vita. Egli dovrebbe fornire all’assicurazione del minimo solo perché nasce» Citazioni da: (Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949).

In altri teorici liberali sembra prevalere più la preoccupazione di evitare conflitti e ribellioni piuttosto che una adesione ad un concetto di giustizia sociale; in questo senso Friedrich A. von Hayek : «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può più provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l’individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato». E, ancora, «un sistema che invoglia a lasciare la relativa sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente, quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere». Citazioni: (Legge, legislazione e libertà – Il Saggiatore 1986). Una collocazione diversa e originale è quella di Popper che nella consapevolezza dei mali del mondo che persistono nel modello economico capitalista sostiene la necessità di affrontare i problemi nella loro concreta possibilità di risoluzione, sviluppando una teoria gradualista, contrapponendo a questa l'ingegneria sociale utopistica. «L’ingegnere gradualista cercherà […] di adottare il metodo idoneo a individuare (e a combattere contro) i più gravi e i più urgenti mali della società invece di cercare (e di battersi per) il suo più grande bene ultimo» (K.R. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1973»

La riflessione di Popper è tutta interna alla logica dello Stato e quindi associa qualunque progetto di trasformazione di sistema all'affermazione di una volontà unica che impone il cambiamento con un forte potere centralizzato. «il tentativo utopico di realizzare uno stato ideale, usando un modello ideale di società, è tale da richiedere un forte potere centralizzato di pochi e, quindi, da portare verosimilmente all’instaurazione di una dittatura». É evidente che i riferimenti storici ai quali si riferisce sono il Nazionalsocialismo e lo Stalinismo. La critica di Popper a tutte quelle teorie che alla stregua del misticismo religioso - che esalta la sofferenza terrena in cambio della promessa del paradiso celeste -, sviluppano la critica della società e teorizzano la lotta di classe in funzione di un cambiamento catartico nel futuro, coglie un aspetto importante di tante teorizzazioni del campo marxita-leninista che legando in maniera meccanica la possibilità di miglioramento delle condizioni di vita delle masse al solo superamento del capitalismo, sfuggono alla materialità attuale di tali condizioni e rinunciano o sono incapaci di proporre azioni tese a dare risposte qui ed ora.

«Da un punto di vista marxista, l’idea di migliorare le condizioni materiali della popolazione semplicemente distribuendo nuovi redditi nasce dalla confusione teorica tra sfere della produzione e della circolazione. Intervenendo solo nella circolazione il RdC agevola la vendita delle merci ma non modifica di una virgola lo sfruttamento del lavoratore nella produzione» Giulio Palermo Ricercatore di Economia politica Università di Brescia. Ed ancora «I problemi del capitalismo non si risolvono distribuendo redditi ma combattendo il capitale e arginando i suoi effetti. » Accanto alla lotta sui posti di lavoro, unico luogo dove si determina la valorizzazione del capitale, la lotta secondo Palermo si deve sviluppare contro la tendenza generale alla mercificazione di ogni aspetto della vita sociale propria del capitalismo ampliando la sfera dei servizi che lo Stato deve garantire ai cittadini. « Per dare risposta concreta ai bisogni della popolazione si devono fornire beni e servizi, fuori dal circuito del mercato e fuori dalla logica del profitto. Si deve demercificare la società non sviluppare la mercificazione ».

Argomenti questi che pongono due ordini di problemi. Il primo riguarda il rapporto dei servizi prodotti dallo stato e l'estrazione del plus valore. Se i servizi prodotti dallo Stato sottraggono settori al mercato non significa che questi servizi non hanno un legame con l'estrazione del plus valore, in realtà l'espandersi dei servizi pubblici non è altro che una socializzazione parziale del plusvalore complessivo intercettato dallo stato con l'imposizione tributaria.

Il secondo riguarda il grado di autonomia e libertà di cui ha diritto ogni persona. Il soddisfacimento anche dei soli bisogni primari attraverso il sistema dei servizi lede la sfera di scelta del singolo. La mensa comunitaria, ad esempio, soddisfa il bisogno al sostentamento, ma non soddisfa la libertà di scegliersi il cibo che più aggrada.

Poiché nelle nostre società, dove il cosiddetto benessere coinvolge larghi settori della popolazione, persistono ampi settori esclusi dal mondo del lavoro, - sia per condizioni soggettive – malattie, mancanza di istruzione, carichi di famiglia (lo stereotipo dell'angelo del focolare è ancora una realtà) -, sia per motivi non dipendenti dal singolo, esclusione delle fasce anziane della forza lavoro in seguito ai processi di ristrutturazione sempre più spinti a causa dei processi di globalizzazione, flessibilità e precarizzazione -, si tratta di coinvolgere questi settori in ambiti di riconoscimento della loro esistenza, non confinandoli solo al sostegno dei servizi che di fatto si traduce in una offerta caritatevole. Credo che il cuore del problema stia proprio in questo, ovvero riconoscere che si è soggetti di diritti in quanto siamo esseri viventi e non solo perché siamo produttori. Legare i diritti all'essere lavoratore di fatto significa restringere il concetto di cittadinanza, ovvero si è cittadini in quanto si lavora e non si lavora – si ha diritto al lavoro – in quanto cittadini. Tale impostazione è quella che nel passaggio dal secondo al terzo millennio ha favorito il superamento del welfare state a favore del workfare.

“Chi non lavora non mangerà” è un aforisma che fa parte della tradizione cristiana, lo troviamo nella Epistola di Paolo ai Tessalonicesi e in tempi relativamente più recenti ripresa da Lenin in Stato e Rivoluzione e codificata nella Costituzione della Russia bolscevica del 1918 e nella Costituzione Sovietica del 1936.

Nella volgata popolare questa massima, soprattutto grazie alla mistica del lavoro propugnata dal comunismo da caserma del socialismo realizzato, ha assunto una valenza generale, associando al non lavoro il concetto di ozioso e di asociale.

Non possiamo però non sottolineare come nella Epistola ai Tessalonicesi la frase fosse meno cruda, in quanto testualmente Paolo afferma che « Se qualcuno non è disposto a lavorare, non mangi ». Con tutta evidenza siamo nella condizione dove il lavoro è disponibile, così come nella Russia bolscevica il lavoro ancor prima che un diritto è un obbligo. Ed ancora, nella migliore tradizione del movimento socialista, quando si canta “chi non lavora non mangerà” si racconta la condizione del lavoratore sfruttato e si invita il padrone a venire a lavorare per “provare la differenza tra lavorare e comandare”, quando si parla di chi non lavora è chiaro che il riferimento è all'ozioso padrone: «Chi non lavora non mangerà, E quei vigliacchi di quei signori Verranno loro a lavorar»

Per dirla con parole semplici, i comunisti anarchici sostengono che la rivoluzione si fa a pancia piena; e che la trasformazione sociale non è demandata alla violenza concentrata dello Stato, ma deve poggiare sull'autorganizzazione delle masse attraverso la sperimentazione di modelli di economia comunitaria, non necessariamente omogenei nei vari territori.

Svincolare gli interessi immediati - cura dei mali attuali - da quelli che sono gli interessi storici - il cambiamento della formazione economico sociale- come suggerisce Popper, nei fatti significa affermare l'immutabilità di tali rapporti, quello che in anni più recenti è stato teorizzato come fine della storia.